Signor Presidente, Signori Consiglieri,
siamo tutti consapevoli e concordi sul fatto che il nostro sistema sanitario necessita di una reale, ma soprattutto coraggiosa riforma per rispondere all’evoluzione normativa in materia e per venire incontro ai mutati bisogni della popolazione e contemperarli alle esigenze, sempre più pressanti, di riduzione della spesa. La nuova sanità regionale deve, pertanto, aumentare l’efficienza riducendo la spesa. La Giunta Tondo, con la legge regionale 25/2012, aveva gettato le basi per questo improrogabile cambiamento, pur rappresentando tale normativa solo l’inizio. La neo insediata Giunta di centrosinistra tuttavia ha deciso di spazzar via quanto fatto fino a quel momento e, delineandone i principi e le finalità con la legge regionale n. 17/2013, ha ora confezionato una riforma che volendo mettere al centro le esigenze del cittadino dovrebbe revisionare il sistema rimodulandolo sulla base delle mutate esigenze della popolazione.
Non possiamo che concordare sui principi su cui si fonda il disegno di legge che approda in aula: tutte le giunte, di qualunque colore politico, che si sono succedute dall’ultima riforma Fasola del ’95 ad oggi, hanno fatto propri quei principi, che richiamando l’articolo 32 della Costituzione, sanciscono la centralità dell’individuo al quale deve essere garantita la continuità delle cure. Sicurezza, revisione della spesa, efficienza dei servizi ed eliminazione dei doppioni sono obiettivi condivisibili, a cui dobbiamo tendere per mantenere quel livello qualitativo di efficienza che il sistema sanitario regionale del Friuli Venezia Giulia ha finora espresso.
Per ottemperare ai principi esposti nella legge regionale n. 17/2013 e raggiungere gli obiettivi e le finalità espresse all’articolo 2 del presente disegno di legge non possiamo però accettare che l’organizzazione e la struttura del sistema sanitario siano un semplice abito da confezionare per vestire la riforma della sanità regionale. Dall’organizzazione del sistema sanitario dipenderà il successo e l’efficienza del sistema stesso e la capacità di raggiungere gli obiettivi prefissati. È un passaggio fondamentale, che non può e non deve basarsi su impostazioni ideologiche o su logiche politiche, corporativistiche e territoriali, ma su un’attenta analisi della società moderna e dei suoi rinnovati bisogni. Partendo da questa stessa analisi noi non possiamo condividere e sostenere la fusione delle aziende territoriali con le aziende ospedaliere, ammesso che si giunga effettivamente alla fusione anche per le aziende ospedaliero universitarie e non ci si limiti a sperimentare questo sistema integrato solo nell’area vasta pordenonese. Due aziende con mission e funzioni completamente diverse non possono convivere, mentre le aziende territoriali infatti hanno una funzione di finanziamento (comperano servizi), le aziende ospedaliere hanno una funzione di produzione (vendono servizi) e tale separazione è ancora più ampia oggi nella misura in cui gli ospedali sono riservati agli acuti.
Le politiche sanitarie devono variare a seconda delle esigenze e dei bisogni di una società in continua evoluzione. Sono in atto importanti cambiamenti epidemiologici e demografici con un costante invecchiamento della popolazione e pertanto uno degli obiettivi principali di una corretta politica sanitaria deve essere quello del riequilibrio funzionale delle risorse, laddove è necessario aumentare le risorse a favore del territorio perché è sul territorio che ci sono le nuove vere emergenze. La fusione delle aziende ospedaliere con le aziende sanitarie porta con sé il limite a questo riequilibrio funzionale poiché gli ospedali hanno sempre dimostrato una forte tendenza al consumo della maggior parte della spesa sanitaria e pertanto con l’unione tra aziende ospedaliere e aziende territoriali si rischia che l’ospedale continui a fagocitare la maggior parte delle risorse e non si giunga ad un sistema equilibrato e funzionale.
Un ultimo aspetto da considerare, seppur secondario, è che l’ospedale, a differenza delle aziende territoriali, non è dedicato solo alla cura dei pazienti, ma si occupa anche di ricerca e didattica, in collaborazione con le Università e gli IRCCS. Con la fusione tra le aziende ospedaliere universitarie e territorio si corrono due rischi: il primo è che ricerca e didattica trovino in un sistema integrato sempre meno spazio, il secondo che, trovandosi l’Università a gestire nuove strutture che finora non aveva avuto come riferimento, sempre più universitari senza futuro accademico trovino sistemazione in posti apicali e l’assistenza territoriale pubblica sia gestita da un’istituzione e da dirigenti con altri interessi ed un’altra mission.
Siamo consapevoli che anche la separazione delle aziende territoriali dalle aziende ospedaliere ha un limite, ovvero non risolve il problema della continuità delle cure e dell’assistenza post interventistica e comunque post acuzie; se la gestione della degenza è separata dalla gestione del post-dimissioni –per quanto riguarda ad esempio il ricovero in RSA – si rischia effettivamente che ci sia un difetto di comunicazione, ma tale problema può essere facilmente risolto attraverso una riqualificazione e riorganizzazione degli ospedali di prossimità e dalla creazione di un dipartimento interaziendale finalizzato a promuovere un sistema di protezione socio-sanitario capace di organizzare e gestire la presa in carico del paziente dimesso da una struttura ospedaliera, garantendo un percorso personalizzato di salute adeguato alle esigenze specifiche del paziente stesso. Tale Dipartimento può rappresentare il trait d’union tra ospedale e territorio e tra le due funzioni, quella di finanziamento e quella di produzione, proprie rispettivamente delle aziende territoriali e ospedaliere.
Non possiamo poi condividere l’impostazione organizzativa di questo disegno di legge anche sotto un altro aspetto: crediamo che in una Regione di soli 1 milione e 200 mila abitanti l’Azienda Territoriale Unica associata, a tre aziende ospedaliere (Trieste-Gorizia, Udine e Pordenone) strutturate sul modello sperimentato con ottimi risultati nel pordenonese con gli Ospedali riuniti, ovvero con gli ospedali di rete che confluiscono nell’azienda ospedaliera, possa garantire il recupero dell’efficienza attraverso una razionalizzazione della spesa sanitaria evitando al contempo ricadute negative sull’offerta di servizi ai cittadini e sulla qualità dei servizi stessi.
Crediamo inoltre che il modello basato sull’Azienda Unica possa assicurare, oltre al citato riequilibrio funzionale, anche un riequilibrio territoriale che con il sistema attuale di finanziamento pro capite per area vasta siamo ben lontani da raggiungere. Già in occasione dell’approvazione della legge regionale n. 17/2013 avevamo espresso la nostra contrarietà ad un modello di finanziamento per area vasta basato sull’assegnazione di quote pro capite, perché crediamo che il diritto alla salute dei cittadini debba essere uguale su tutto il territorio regionale, non comprendevamo e ancora non comprendiamo infatti la ratio di un modello che valuta la salute del paziente triestino € 1.945, quella dell’udinese € 1.669 e quella del pordenonese solo € 1.502 (dati riferiti all’anno 2013). Attraverso l’Azienda Unica la distribuzione delle risorse verrebbe automaticamente basata sulle reali necessità del territorio ed i cittadini della nostra regione si vedrebbero garantiti servizi omogenei e trattamenti uguali a prescindere dalla loro residenza. Il rispetto dei principi di perequazione e di solidarietà è fondamentale per garantire una reale efficienza del sistema regionale e su questo, anticipo fin d’ora che presenteremo un emendamento volto ad assicurare la distribuzione di risorse omogenee in coerenza con tali principi.
Chiarita la nostra posizione in merito alla struttura organizzativa del sistema sanitario in termini di enti, crediamo che l’assistenza primaria, così come organizzata nella Sezione II del Capo III del presente disegno di legge, debba fondarsi su una esatta coincidenza tra il distretto e l’ambito sociosanitario al fine di garantire una reale integrazione tra i servizi sanitari, sociosanitari ed i servizi sociali dei Comuni. A tal proposito sarebbe stato opportuno valutare la riforma sanitaria insieme all’annunciata riforma degli enti locali, per armonizzare realmente gli ambiti dei servizi sociali alle articolazioni delle aziende sanitarie, per creare da subito quella doverosa sinergia tra politiche della salute e politiche sociali che può portare a compimento la necessaria sinergia tra ospedale e territorio e garantire una reale continuità della cura e presa in carico delle fasce più deboli della popolazione. Del resto, al comma 2 dell’articolo 6 si considerano le ripercussioni che il riordino degli enti locali può avere sugli ambiti territoriali, cosa che invece non viene considerata nell’articolazione territoriale dei distretti e degli ambiti sociosanitari. Non comprendiamo inoltre la ratio di un’articolazione del territorio coincidente con multipli o frazioni territoriali di uno o più ambiti del Servizio sociale dei comuni, tale impostazione, infatti, lascia aperta la porta ad ogni tipo di soluzione, senza dare un riferimento preciso e creando un’inutile confusione.
Venendo infine al Capo IV relativamente all’assistenza ospedaliera, pur approvando in linea di principio la suddivisione tra presidi ospedalieri “hub” e “spoke” non condividiamo l’organizzazione della rete regionale dei presidi ospedalieri, in quanto crediamo vada a tutto svantaggio delle aree montane e pedemontane con conseguenze in termini di sicurezza per la salute del cittadino e di gestione dell’emergenza. Tale considerazione vale principalmente per le realtà montane, che con i loro presidi ospedalieri rispondono alle esigenze di immediata fruibilità delle strutture ospedaliere di gestione dell’emergenza per i cittadini dell’area montana di riferimento.
Riorganizzare questi presidi ospedalieri in termini di depotenziamento significherebbe mettere in pericolo la salute dei cittadini che vivono in un’area già di per sé svantaggiata. Si pensi ad esempio ad un’emergenza sanitaria che si verifica nel cuore della notte durante una nevicata, siamo sicuri che l’ambulanza messa a disposizione 24 ore su 24 sia in grado di trasportare in tempo il paziente nell’ospedale di riferimento, garantendo il rispetto dei tempi previsti per un servizio di emergenza efficace? A nostro avviso la risposta non è così scontata ed in nostro soccorso viene anche il regolamento allegato al Patto per la salute 2014-2016 che definisce al punto 9.2.2 i Presidi ospedalieri in zone particolarmente disagiate. Il citato regolamento spiega che “tali situazioni esistono in molte regioni italiane per presidi situati in aree considerate geograficamente e meteorologicamente ostili o disagiate, tipicamente in ambiente montano o premontano con collegamenti di rete viaria complessi e conseguente dilatazione dei tempi, oppure in ambiente insulare.” In queste aree ostili e non perfettamente collegate è fondamentale assicurare una attività di pronto soccorso con la conseguente disponibilità dei necessari servizi di supporto, quali attività di medicina interna e di chirurgia generale, seppur ridotta.
Ignorare la possibilità offerta dal Patto per la salute 2014-2016, negando l’inserimento in legge dei presidi ospedalieri in zone particolarmente disagiate sarebbe un grave errore le cui conseguenze ricadrebbero sulla salute dei concittadini che vivono nelle zone montane e pedemontane. Ancora più grave dal momento che significherebbe derogare alla nostra autonomia che permette di demandare alla volontà politica il limite indicato dal regolamento relativo alla distanza del presidio dell’area montana o pedemontana dal centro hub o spoke di riferimento.
In conclusione, anticipiamo fin d’ora il nostro voto contrario ad un disegno di legge che invece di riformare il sistema in maniera coraggiosa, sperimenta sulla salute dei cittadini un modello nuovo che porta con sé problematiche e rischi non trascurabili. Crediamo inoltre che le norme qui contenute siano generiche e non definiscano in maniera puntuale il percorso di transizione dall’attuale sistema a quello nuovo, ma soprattutto ci preoccupa la mancanza di una programmazione e di una seria valutazione economico-finanziaria di questo processo di riforma.
Faremo tuttavia la nostra parte presentando emendamenti puntuali, per portare in aula il nostro contributo e la nostra visione di riforma del sistema sanitario. Ci auguriamo, pertanto, fin d’ora di non trovare, come purtroppo è accaduto nell’ambito della Commissione consiliare competente, una immotivata e aprioristica preclusione nei confronti delle proposte che avanzeremo con lo scopo primario di apportare un miglioramento al presente disegno di legge e non semplicemente di imporre una visione diversa per puro spirito di opposizione.